Attualità
Borgosesia Giornata della Memoria: proiezione del film “Il figlio di Saul”
BORGOSESIA – La Giornata della Memoria, istituita nel nostro Paese nel luglio del 2000, con cinque anni d’anticipo sull’ONU, a Borgosesia è stata ricordata con la proiezione del film: “Il figlio di Saul” del giovane regista ungherese Laszlo Nemes. Promotori dell’iniziativa l’ANPI, l’Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea nel Biellese, nel Vercellese, in Valsesia, il Cinema Lux, la Parrocchia, l’AGESCI, il Centro Studi Giovanni Turcotti, con il patrocinio del Comune di Borgosesia.
La platea del cinema Lux era affollata: la serata è stata aperta dal saluto di Alessandro Orsi, Presidente dell’ANPI di Borgosesia e di Don Ezio Caretti, già parroco di Borgosesia, che sostituiva don Gianluigi Cerutti, ancora in quarantena. Dopo aver manifestato il piacere di tornare a Borgosesia, Don Ezio ha comunicato alcune riflessioni incentrate sulla necessità e l’importanza di mantenere la memoria di quel tragico progetto di umiliazione di zone dell’umanità, affinché l’umanità del super uomo potesse dominare, resistendo ad ogni tentativo di sopraffazione e rispettando le persone per quello che sono e che valgono.
Bruno Rinaldi, già docente al Liceo Scientifico e storico, conoscitore della realtà concentrazionaria, ha introdotto al significato dell’incontro incentrato sul film: “Questo è il nostro contributo alla Memoria, al ricordo dei cinque deportati valsesiani: segregare, discriminare, deportare, era la tragica triade”. Rinaldi ha ricordato alcuni dati sulla nascita dei campi di concentramento, sul razionale progetto di sterminio attivato da Hitler fin dalla sua ascesa al potere nel 1932 per conquistare quello spazio vitale che era indispensabile al popolo ariano per avere finalmente una Europa Juden Frei, purificata dagli Ebrei.
Nel 1942 si arrivò a quella che era stata definita la “soluzione finale”, attivata nei campi di sterminio, di cui uno, Auschwitz, era al centro del film che sarebbe stato proiettato. Bruno Rinaldi ha concluso il suo intervento constatando che: “Parlare della Shoà con le parole della ragione è impossibile: il film è un pugno nello stomaco”.
Matteo Mancin, esperto di tecniche cinematografiche, ha premesso che “Il figlio di Saul” è un film atipico, che nel 2016 vinse l’Oscar per il miglior film straniero, girato con un formato particolare: 1.33, 1.35, un vero e proprio réportage in diretta, dove si è sempre spalla a spalla con il protagonista e non esiste una colonna sonora, ma suoni terribili, ordini urlati, dialoghi minimali. Il protagonista, Saul, fa parte di un SonderKommando, ma sposa una missione di una “umanità semplice e disarmante”.
Di tutti i centri di sterminio che i nazisti istituirono per gli ebrei, Auschwitz è quello che detiene il più alto bilancio di vittime: circa 1.100.000 persone vi trovarono la morte, di cui 875.000 uccise col gas al loro arrivo. Saul Ausländer con alcuni compagni, prigionieri essi stessi, ha il compito terribile di rimuovere i corpi dalle camere a gas, cremarli e poi buttare le ceneri nel fiume. Mentre sgombera e pulisce una delle camere a gas, Saul vede uccidere dai medici nazisti un ragazzo inspiegabilmente sopravvissuto alla gassificazione. L’uomo, che sostiene che il ragazzo morto sia suo figlio, vuole evitargli la cremazione per offrirgli una degna sepoltura. A questo scopo si mette alla ricerca di un rabbino affinché sia seppellito accompagnato dal Kaddish, la preghiera rituale. Alle cremazioni sommarie, indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che lo conduce attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e bisogno, sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e assuefazione collettiva, che il regista restituisce con la sfocatura, emerge la figura di Saul che, dopo aver portato a termine il compito che si era prefisso, la macchina da presa abbandona al suo tragico destino, inseguendo un bambino che fugge nella foresta, scomparendo nella vegetazione: tutto l’orrore della morte resta alle spalle.
Un film cupo, ossessivo che però lascia trasparire una speranza, un barlume di umanità.
Piera Mazzone
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