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I padroni del cielo: tornano i rondoni

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Con l’arrivo dei tepori primaverili, da bambini aspettavamo il ritorno delle «bibe», gli uccelli migratori che avevano passato l’inverno nei paesi tropicali e che sarebbero tornati per riempirci le giornate e il cuore con le loro grida festose e i loro voli spericolati. Le «bibe»  o, come vengono spesso chiamati, i «bibi», nient’altro sono che i rondoni, che prendono il loro nome dialettale dai versi che sono soliti emettere in volo: «bi-bi-bi». Da noi, i rondoni sono i veri padroni del cielo: sanno salire in alto, tanto da scomparire all’occhio umano, ed essere velocissimi e precisi quando sfiorano le case di pochi centimetri, effettuando cabrate spettacolari.
Hanno poi una caratteristica che li rende unici: possono rimanere in volo per tutta la vita! I rondoni non hanno la necessità, come gli altri uccelli, di toccare terra, nemmeno per mangiare, bere e dormire; a dire il vero, l’unico momento (breve) in cui questi uccelli sono costretti ad abbandonare il cielo è quando nidificano, ed essendo uccelli rupicoli, sono soliti fare il nido nelle spaccature delle rocce o nelle cavità degli alberi. Questi siti naturali, in passato, erano i loro unici rifugi, ma, dopo che l’uomo iniziò a edificare bastioni e edifici, i rondoni cominciarono a nidificare anche nei buchi delle mura, nei sottotetti e negli spazi sotto le tegole. L’importante, sia nel caso di siti naturali o antropici, è che le cavità si trovino molto in alto, a diversi metri dal suolo, visto che questi uccelli, per poter volare, hanno bisogno di potersi lanciare nel vuoto. Se cadono a terra, infatti, non riescono più a spiccare il volo, perché le loro zampe non hanno muscoli che permettono di staccarsi dal suolo; da qui il termine latino apus, che significa alla lettera «senza piedi» e  che contraddistingue la loro famiglia, quella degli «apodidi».
Ma se le loro zampe sono deboli, non lo sono di certo gli artigli, che addirittura consentono ai rondoni di aggrapparsi alla pietra. Negli ultimi secoli, con l’aumento del numero delle unità abitative che, come abbiamo detto, forniscono loro molte cavità utili per nidificare, i rondoni si sono inurbati e hanno iniziato a fare parte del corredo della fauna che vive a stretto contatto con l’uomo. Vivere vicino a un «predatore»  così eclettico e organizzato comporta però i suoi rischi: infatti, nei secoli passati, i pulcini di rondone costituivano un ingrediente prelibato sulle tavole dei nostri avi, nonché un piatto tipico di alcune locande tipiche della Valsessera e della Valsesia. Oggi, che di carne ce n’è in abbondanza e alla portata di tutti, la pratica di cibarsi di queste giovani creature può sembrare crudele, ma un tempo, quando la carne era un lusso, gli uccelli selvatici diventavano una risorsa importante e a costo zero. Alcune famiglie facoltose facevano addirittura costruire apposite torri nella parte più alta delle loro abitazioni per creare un condominio per rondoni: le note torri rondonare, dette anche bibere, o casa delle bibe. Con una forma regolare, a parallelepipedo, tipicamente turrita, esse erano appositamente costruite con tanti fori (a volte centinaia) sulle quattro pareti, tutti disposti ordinatamente in file e di diametro consono a farvi entrare un rondone, ma non uccelli più grossi, loro possibili predatori. Questi buchi, oltre alle torri, ornavano anche diversi campanili o le facciate di edifici e di cascine; lo scopo di tanta fatica edilizia era sempre lo stesso: procurarsi carne a buon mercato. Per facilitarne il prelievo, che doveva essere fatto quando i giovani raggiungevano il loro massimo peso, solitamente tra fine giugno e i primi giorni di luglio, era stata realizzata una camera interna all’edificio, raggiungibile tramite una porticina in legno. Dalle camere, però, non venivano presi tutti i giovani, che di norma erano due o tre, ma ne veniva lasciato sempre qualcuno, in modo che la coppia che vi aveva nidificato avesse posterità e tornasse anche negli anni successivi, insieme ai suoi figli, a implementare la colonia, formata, a volte, da centinaia di coppie. Oggi pare ridicolo mangiare un uccellino di qualche decina di grammi, e nessuno più si sognerebbe di farlo, ma nei tempi passati, in un contesto di povertà rurale, questi diventavano una preziosa risorsa. Triste a dirsi, ma i rondoni oggi, anche se sono protetti, sono meno numerosi di un tempo, quando venivano predati dall’uomo. Il motivo risiede, purtroppo, nella scarsità degli alloggi; nel tempo, infatti, le torri rondonare sono state abbandonate, le porticine o le assi che chiudevano le camere sono cadute lasciando la stanza aperta e troppo luminosa per essere utilizzata da un uccello cavernicolo che ama il buio. Se aggiungiamo che spesso oggi le case sono intonacate e i sottotetti chiusi ermeticamente, capiamo come sia difficile trovare un anfratto opportuno per deporre le uova. Cosa si potrebbe fare, quindi? Riattivare le torri rondonare con interventi restaurativi in modo da consentire ai rondoni di tornarvi. Ed è quello che hanno fatto Giovanni e Alberto a Orsanvenzo, frazione del Comune di Valduggia, dove hanno ristrutturato di loro volontà i «nidi» che si trovavano sul campanile della chiesa, 125 in totale disposti su 6 lati dell’ottagono.

Il risultato è che quest’anno hanno trovato asilo 54 coppie di rondone comune (censite con un sistema di telerilevamento), ricostituendo così una delle colonie più nutrite di tutta la Valsesia. Un risultato straordinario per il quale dobbiamo dire grazie a uomini come questi che si sono rimboccati le maniche e hanno fatto della conservazione attiva. Questa è una delle cose più utili che ogni proprietario di torre rondonara potrebbe fare affinché le grida festose dei rondoni tornino a echeggiare tra le contrade a ogni primavera, rallegrandoci e a facendoci sognare di essere tornati bambini.

 

Lucio Bordignon, ornitologo

Foto di Alberto De Bernardi

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