Attualità
L’eredità valsesiana di Leonardo
Le creste e le cime delle montagne prima dell’arrivo di topografi e alpinisti non avevano nome. Facevano eccezione a questa regola le montagne che costituivano un punto di riferimento locale o regionale. Il Monte Rosa, visibile da tutto il settore centro-occidentale della Pianura Padana, era una di queste eccezioni (Fantoni, 2016¹).
Il nome della montagna nei documenti medievali
La documentazione relativa agli alpeggi ubicati alla base del versante meridionale del Monte Rosa è molto ricca. I documenti utilizzati in questo lavoro sono in parte editi ed in parte inediti. Questa documentazione è stata sinora utilizzata quasi esclusivamente nell’ambito degli studi sulle dinamiche del popolamento alpino da parte di coloni alemanni e non è mai stata utilizzata per uno studio sistematico della toponomastica alpina.
L’analisi dei documenti editi, dei testi inediti dei documenti pubblicati sinora solo in regesto e dei documenti totalmente inediti offre la sorprendente citazione dei numerosi nomi del monte, utilizzati nelle valli del versante meridionale del massiccio in età medievale.
Nel più antico documento riguardante la regione del Monte Rosa, la permuta di beni tra la chiesa di S. Pietro di Brebbia e l’abbazia di S. Salvatore di Arona del 999, la regione confinante con le alpi della valle Anzasca viene semplicemente indicata come in glacia (Bianchetti, 1878). In un documento del 1423 tra i confini delle alpi Pedriola e Rosareccia (Macugnaga) compare il culminis Giaziarii (Rizzi, 2006). Tra i confini di queste alpi in un documento del 1451 compaiono nuovamente i ghiacciai; in un altro documento del 1457, tra i confini delle alpi di Macugnaga, compare ancora una cima glazarii (Bertamini, 2005). In una lettera del 1556 il cardinale Madruzzo scriveva ancora che l’Anza nasce da una montagna di giazzo (Bianchetti, 1878). Nella relazione del Cesati, delegato del Magistrato delle regie entrate del governo di Milano del 26 dicembre 1651, veniva citata ancora la montagna del Giacciaro (Bertamini, 2005).
Un altro nome generico indicante un ghiacciaio è utilizzato anche in altri luoghi sul versante meridionale del Monte Rosa. In un documento del 1377, tra i confini dell’alpe Orsia (Gressoney), oltre alla sommità e alla creste delle montagne (summitatium montium, crista montium), è citato il riale de Zaval che esce de la rosa.
Nel documento compare per la prima volta la voce rosa. Nel patois valdostano il vocabolo, variamente pronunciato (roisa, ruiza, roeza), significa ghiacciaio.
Negli attuali gerghi franco-provenzali la voce è scomparsa, ma la rosa è un fossile che risulta ampiamente conservato nella toponomastica dell’intera regione, di cui rimangono anche numerosi attestazioni documentarie.
Il nome, scritto in minuscolo nel documento, non è ancora un nome proprio, è soltanto un nome comune indicante un ghiacciaio da cui esce un ruscello.
Pochi decenni dopo, ad Alagna, compariva una voce simile a quella usata a Macugnaga e Gressoney per definire il confine superiore degli alpeggi. Nel processo informativo del 1420, per riconoscere i beni della Mensa vescovile di Novara in Valsesia, erano nominate otto alpi con le relative coerenze; tra i confini dell’alpe Auria compariva un generico nevallum (Fantoni e Fantoni, 1995).
Anche ad Alagna, come a Macugnaga e a Gressoney, il confine superiore degli alpeggi era individuato soltanto con un termine che specificava le condizioni permanentemente innevate delle montagne. Un termine equivalente (gletscher) era utilizzato anche per il lato vallesano del monte nel 1534 da Egidio Tschudi e nel 1574 da Simler.
Il Monboso
Nello stesso periodo però, in altri atti riguardanti le alpi appartenenti al vescovo di Novara poste sul versante valsesiano della montagna, comparve per la prima volta un toponimo specifico. In un documento del 1411 relativo alla cessione dell’alpe Bors veniva citato un toponimo apparentemente incomprensibile, il crossuz sue flura de croso Biossuz. Ma altri documenti degli anni immediatamente successivi restituiscono piena comprensione alla voce Biossuz. Un documento del 1413 relativo all’alpe Auria specificava in dettaglio i confini dell’alpe, costituiti dall’alpe Bors, attraverso l’acqua del Sesia, dalla colma Machugnaghe, e da lo Biosson. In un altro documento dell’anno successivo lo stesso toponimo (lo Biosson) era usato anche per identificare il confine settentrionale dell’alpe Bors, ubicata sull’altro lato del Sesia rispetto all’alpe Auria (Rizzi, 1983).
Negli stessi anni dai notai della Curia novarese era utilizzato il toponimo generico nevallum, descrittivo delle condizioni permanentemente innevate delle montagne a nord dell’alpe. Altri notai locali utilizzavano un toponimo con un nome singolare: Biosson. I notai valsesiani continuarono ad usare toponimi simili anche nei secoli successivi. Il Bioso compare come confine di un alpe in un documento del 1553 e in un atto relativo al pagamento di un affitto del 1564 compare ancora tra i confini delle alpi di Alagna il mons appellatus il Boso (Fantoni, 2008).
La prima attestazione letteraria di un nome simile a quello usato dai notai valsesiani si deve al cronista novarese Pietro Azario (nato nel 1312- morto dopo il 1366), al servizio dei Visconti durante la guerra del Canavese. Nel manoscritto De bello Canepiciano del 1365 (pubblicato dal Muratori nel 1730 nel Rerum italicarum scriptores) parlando della Dora dice che “trae origine dalle Alpi freddissime, sempre ricoperte di ghiacci: cioè dal Monte Bosseno, che sovrasta tutti i monti della Lombardia, e dal quale la neve e i ghiacci mai si ritirarono dall’origine del mondo” e precisa che “Questa monte ostile è situato in capo alla Valsesia sopra il distretto di Novara”. L’incongruenza con le origini della Dora, dovuta alle scarse conoscenze geografiche dell’epoca, non deve però trarre in inganno; la precisazione finale permette di riconoscere inequivocabilmente nel Monte Rosa la Montanea Boxeni.
Un secolo dopo l’erudita forlivese Flavio Biondo (1388-1464), nel capitolo dedicato alla Lombardia dell’Italia illustrata citava il Monboso: “Il monte chiamato Boso, è un promontorio de l’alpe Coccie, ed è il più alto monte d’Italia, e sempre è anco nel mezzo de l’estate coperto di spesse nevi, e non vi si può per via alcuna del mondo andar su”. Il testo del Biondo venne ripreso dal frate domenicano bolognese Leandro Alberti (1479-dopo il 1552). Nella Descrittione di tutta Italia del 1550, dopo aver parlato della pianura novarese, scriveva: “Salendo poscia a gli alti monti, evvi Monte Boso, et più oltre un giogo di tanta altezza, che par superare tutti gli altri monti d’Italia. Onde non mai per verun tempo se vi può passare alla sommità, tanto per la grand’asprezza, quanto per le gran nevi, dalle quali sempre è coperto”.
Il nome valsesiano della montagna fu utilizzato anche da Leonardo Da Vinci nel Codice Leicester nella sezione intitolata Del colore dell’aria. Nel manoscritto, redatto attorno al 1508, Leonardo raccolse appunti sulla terra, sulle acqua e sulle montagne relativi ad osservazioni compiute negli anni precedenti. In una di queste osservazioni viene citato e descritto il Momboso: E questo vedrà come vidi’o, chi andrà sopra Monboso giogo dell’Alpi che dividono la Francia. In un’altra pagina del codice Leonardo richiama poi “la sperienza di Monboso”.
Sulla scorta di questa fonte autorevole il nome valsesiano del monte venne utilizzato anche in tutte le opere lessicografiche pubblicate in Europa (da Filippo Ferrari a Milano nel 1627, da Johan Jakob Hoffman a Basilea nel 1677, dal Baudrand a Parigi nel 1681, da Thomas Corneille a Parigi nel 1708).
Il Monte Rosa
I notai valsesiani, il “milanese” Leonardo, gli eruditi rinascimentali italiani e i redattori dei dizionari enciclopedici europei utilizzavano tra Trecento e Seicento un solo toponimo: Monboso.
Nel Cinquecento fece la sua comparsa nella cartografia geografica anche un toponimo che trasformò il nome generico rosa nel nome proprio Monte Rosa. La voce comparve per la prima volta nella carta del Ducato di Milano (realizzata nel 1560 dal milanese Giovanni Giorgio Settala ed inserita dal 1570 nell’Atlante di Abramo Ortelio) come M. Rosio.
Per un paio di secoli nella cartografia europea il Monboso continuò a competere con il Monte Rosa. In alcune carte della prima metà del Settecento i due nomi comparivano ancora affiancati. Ma dalla metà del Settecento il Monboso scomparve definitivamente anche dalle carte geografiche e per tutti rimase un solo nome: Monte Rosa.
Roberto Fantoni
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