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Noio, volevàn savuàr…

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Mi è sempre piaciuta moltissimo quella scena in cui, arrivati a Milano, per riuscire a muoversi nella grande città Totò e Peppino chiedono informazioni a un Vigile Urbano scambiandolo per ufficiale austriaco («tanto siamo alleati») col quale quindi s’improvvisano poliglotti (ovviamente, maccheronici).

Le lingue straniere: affascinanti, ispiratrici di curiosità e attenzione, se ne conosci una o meglio di più è inevitabile che, come succede da un po’ d’anni a questa parte, ti si aprano porte per altri invece chiuse a doppia mandata. E poi, c’hanno quel loro richiamo ammaliatore, mezzo esotico e mezzo misterioso: col potere, quasi, di rendere chi le parla interessante solo perché appunto si esprime in una lingua diversa dalla nostra.

A me, forse per un innato desiderio di approfondire, studiare, apprendere quel che essendomi ignoto non sono in grado di comprendere, m’han sempre fatto questo effetto, fin da bambina, e ancora oggi. Ammetto infatti che sarei felice di essere non dico poliglotta ma certamente perlomeno bilingue. Dovessi scegliere una e una sola lingua da imparare per praticarla con scorrevolezza, zero dubbi: l’inglese.

Che avevo studiato con impegno e passione per la prima volta all’università e che ora, non servendomi in maniera essenziale, ho purtroppo un po’ perso. Fermi restando questo mio apprezzamento e una personale spiccata simpatia per l’idioma anglosassone, ecco, mi sento invece lontanissima dall’uso – reiterato e inflazionato – degli anglicismi. Così, buttati a manciate (abbondanti), spesso anche nei comunicati (italianissimi) che quotidianamente riceviamo in redazione. Oggi, dopo l’ennesimo in cui si accennava a una lochescion (ops, location) e poco più avanti a una missccion (ri-ops, mission), mi è esplosa l’orticaria.

E pensare che la nostra è una lingua bellissima, per niente rigida e severa ma flessibile e malleabile, aperta, elegante, sfaccettata, disponibile, generosa, vivace, declinabile secondo le diverse e varie necessità.
Perché abdicarla all’inglese?

Passino gli under & over, probabilmente mutuati dal gergo calcistico o comunque sportivo e ormai rubricati forse anche nei dizionari. Concediamo pure lo show, gli stop, il check in e lo screening, il week end, la baby sitter (che ai miei tempi era la paziente e affettuosa «bambinaia»), il beauty case e il business. Ma la call, la deadline, il feedback, il flop e il gap, il look e il party, il sold out, lo step e il team e il coach e la start up, e poi il trend, la task force, il welfare e il work in progress… traducibilissimi, e pure con l’imbarazzo della scelta attingendo alla preziosa e inesauribile fonte dei sinonimi, se ne potrebbe tranquillamente fare a meno: affidiamoci alla nostra lingua meravigliosa, lasciamoci sedurre dai suoi suoni, dall’armonia, dalla scioltezza, dalla versatilità. Eviteremo ogni tipo di eritema.

Arvugh’si, legru a tücc.

Luisa Lana

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