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Valduggia: c’era una volta… gli anni del dopoguerra

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VALDUGGIA – A fine aprile 1945 termina per gli italiani la seconda guerra mondiale.
Nelle vie del paese non c’è particolare esultanza. I partigiani sono scesi a festeggiare in città e in molte famiglie c’è ancora mestizia per qualche congiunto morto o disperso nel conflitto, o ancora in prigionia. Si attenua la penuria alimentare. Il forno del «Napùlion» (Francesco Buratti), che sarà il primo sindaco del dopoguerra, ci dà finalmente il pane bianco e i contadini possono allevare vitelli e ingrassare maiali senza doverli poi consegnare all’ammasso.

Nelle campagne i coltivatori si dedicano ai loro lavori senza essere intimoriti dai rastrellamenti e tutto sembra tornare alla normalità. Sembra. I tedeschi in ritirata hanno lasciato qua e là ordigni esplosivi e bombe senza sicura. L’incauto che li prende in mano può essere dilaniato dal loro scoppio e purtroppo succede: sulle rive del Sesia ragazzi curiosi subiscono ferite e mutilazioni.

Fatta la Costituzione Repubblicana i partiti politici si contendono il governo della nazione. Nell’imminenza delle elezioni la contesa si fa accesa e le vie principali del paese sono tappezzate di manifesti e invase da volantini. In piazza si alternano i comizi e se l’oratore e il suo seguito sono colorati di rosso il discorso è spesso disturbato dal suono delle campane.

Quando le tensioni della politica raggiungono livelli pericolosi è Bartali a mettere tutti d’accordo.
Intanto il lavoro nelle industrie e nei laboratori artigianali si sviluppa con ritmi e produzioni crescenti. Nei prati dove in giugno si falciava il fieno e in autunno pascolavano le mucche si costruiscono i primi capannoni col tetto a volta ricoperto di eternit.

Ma il cuore pulsante della comunità valduggese è ancora nel centro storico. La via Gaudenzio Ferrari con la piazza omonima è percorsa da operai e operaie che vanno al lavoro, c’è chi va a fare la spesa nei negozi, chi va in municipio, in chiesa, in farmacia, dalla parrucchiera, dal barbiere, dal ciabattino, dal tabaccaio, dal ciclista per riparare la bicicletta.

I carri trainati dai cavalli percorrono la via e consumano le secolari lose di granito. La via è un percorso obbligato anche per gli autocarri e per le corriere che spesso hanno difficoltà nello stretto passaggio fra la chiesa e la casa parrocchiale. Leggendaria è la «burbanèla» che passa con regolarità andando verso la Cremosina. Se i posti a sedere e in piedi sono tutti occupati c’è chi sale e viene trasportato sul tetto fra cestoni, casse, valige e biciclette. C’è posto per tutti su quella corriera che scandisce con l’orologio del campanile e la sirena delle fabbriche i ritmi della quotidianità.

In quella via ci sono anche due osterie che sono, nell’arco di tutta la giornata, centro di intensa animazione popolare e, nelle pause di lavoro, crocevia di tutti i mestieri.
C’è il muratore e il ciclista, il fonditore e il lattoniere, il tornitore, il calzolaio, il mulattiere, il macellaio, il falegname, il fornaio, il barbiere e il bottegaio; il sarto, il contadino, il fabbro, il taglialegna e l’imbianchino. Di tanto in tanto l’arrotino, il commerciante di bovini, lo straccivendolo, il commerciante di suini (purcelat), l’ombrellaio e lo stagnino (magnan). Rari gli sfaccendati.

E poi c’è l’oste. Al «Pesce d’oro», che dà sulla piazza, è l’Artemio Zoia che accoglie i clienti nel suo locale che un tempo era uno storico albergo con stallatico. E’ un uomo di alta statura e robusta costituzione che riceve gli avventori abituali con bonaria cordialità. Non sopporta però a lungo gli ubriachi molesti. Se lo infastidiscono troppo li solleva di peso e, con garbo, li mette fuori a prendere l’aria fresca della piazza.

Al piano terreno di quella che oggi è chiamata «Casa Vinzio», sull’angolo che dà su largo Resegotti (canton di cinq vii ) c’era l’osteria della Spagna, altro centro di incontro del paese. Sulle pareti, in tema con il locale, quadri con scene di corrida sopra tavoli sui quali l’oste Silvio Bisetti porta mazzi di carte da gioco con la lavagnetta segnapunti e la zampetta di coniglio come cancellino. Verso mezzogiorno dalla cucina sul retro profumi di trippa, arrosti e brasati.

L’oste serviva gentile e premuroso i piatti preparati dalla moglie Ines e dalla figlia Bianca. Poi si appartava dietro il banco di mescita silenzioso e attento agli avventori. Erano gli anni dei conflitti in Indocina e in Corea. Se qualcuno dei presenti li commentava egli, l’alpino Silvio Bisetti, usciva dal suo abituale riserbo e, rivolto a noi giovani , malediceva la guerra, senza risparmio di parole, precorrendo Giuseppe Ungaretti che, qualche anno più tardi, in televisione, anch’egli rivolto ai giovani, dirà, con la sua abituale veemenza: «la guerra è e rimarrà l’atto più bestiale dell’uomo».

Così in quegli anni Silvio Bisetti, uomo di pace, e il poeta Giuseppe Ungaretti, interventista ravveduto, davanti a noi giovani, condannavano la guerra, dopo aver visto e vissuto nelle trincee gli orrori di quella «inutile strage».

Lorenzo Zaninetti

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