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Considerazioni: Giovanni d’Enrico e la cappella di S. Benedetto in S. Giacomo a Varallo

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La notizia del restauro riguardante la cappella Rachetti, o dell’Immacolata, o anche di S. Benedetto nella chiesa di S. Giacomo, al di là del «Pontem Varadi» (Corriere Valsesiano, 1 novembre 2019), mi offre l’occasione più favorevole e più adatta per render noto un appunto che tenevo in disparte da vari decenni, con centinaia di altri, nella speranza di poterlo, e di poterli prima o poi render noti. Infatti, in più di sessantacinque anni di studi e di ricerche sull’arte e sulla cultura valsesiana, oltre che sul Sacro Monte, monumento principe della valle, sono andato raccogliendo, o forse meglio accatastando, una gran quantità di dati inediti, di osservazioni, di confronti illuminanti, di scoperte, sempre con l’ingenua intenzione di poterli prima o poi pubblicare, perché non vadano perduti. Quante volte ho iniziato a sviluppare un testo, rimasto però sospeso a causa di altri impegni, di altre iniziative che si sono andate sovrapponendo, avendo così per varie ragioni la precedenza, mentre il tempo fugge inesorabile.
Qui oggi non posso svolgere e approfondire tutto uno studio in modo esauriente come vorrei e come sarebbe necessario. Mi limito all’essenziale; a due punti: il primo riguardante il dossale ligneo, o pala dell’altare della cappella di S. Benedetto; il secondo, di gran lunga più importante, sulla statua in terracotta della Madonna, che troneggia al centro dell’altare.
Come è ben noto e documentato dalla lapide esistente nella cappella, essa venne eretta tra il 1642 e il 1644 dagli eredi di Benedetto Rachetti, figlio di Francesco, fobellese di origine, di cui è ben due volte raffigurato lo stemma «parlante», ovviamente di invenzione e mai ufficializzato, come la maggior parte di quelli di cui si fregiano numerose famiglie valsesiane. Tutto un capitolo a sé richiederebbe l’albero genealogico dei Rachetti, tracciato nell’Ottocento dal Tonetti, che non corrisponde ai dati più attendibili forniti dalla lapide seicentesca, murata nella cappella.
L’altare ligneo, realizzato ovviamente nel 1643-44, è un esemplare tipico, con il dorsale tripartito architettonicamente, o a “trittico”, di cui si incontrano altri esemplari in valle ma, che io sappia, tutti posteriori, come quelli delle frazioni di Rabernardo e di S. Antonio a Riva Valdobbia, della seconda metà del secolo, quello della Madonna del Carmine nella parrocchia di Camasco, opera di Antonio Pino, del 1690, o ancora dell’oratorio di S. Rocco, di nuovo a Riva Valdobbia, opera del Jacomino (1705-06). Sono tutti dotati però di statue lignee, mentre in quello varallese sono in terracotta.
L’altare della chiesa di S. Giacomo, che si può dunque considerare come il prototipo di questo genere, è molto probabilmente opera di Bartolomeo Ravelli, attivissimo in pieno Seicento e con bottega a due passi dalla chiesa, in Palazzo d’Adda.
Ma la sorpresa maggiore viene dalle tre statue in terracotta. Basta infatti un colpo d’occhio per accorgersi che la Madonna è una diretta derivazione, per non dire quasi una replica con varianti, di quella elegantissima e ispirata di Giovanni d’Enrico al Sacro Monte di Orta, sull’altare della cappella IX, della Vestizione di S. Chiara, realizzata appena prima nel 1642, e per tanto riferita a un ignoto scultore Giovanni Righi, che non era per altro che Giovanni d’Enrico. Qui, a Varallo, le mani della Vergine, che a Orta si aprono in un gesto eloquente verso il cielo (si tratta infatti dell’Assunta), si congiungono con una naturalezza istintiva, ripiegandosi oranti verso sinistra. Questa la variante più evidente. In basso poi, con andamento meno aulico e forse per mano del collaboratore Giacomo Ferro (se non si tratta di rimaneggiamenti successivi), nell’esiguo spazio compaiono due angioletti che vi stanno appena. Sono originali o hanno sostituito la mezzaluna ai piedi dell’Immacolata? Infine, il capo della Vergine, con lo sguardo rivolto verso l’alto, come a Orta, è incorniciato con grazia da un velo lievemente ondulato tutt’attorno, che costituirà ben presto un motivo ricorrente nelle statue femminili nelle varie cappelle di S. Anna a Montrigone, impresa iniziata dall’ormai vegliardo Giovanni d’Enrico, deceduto all’inizio del 1644 proprio a Montrigone, e continuata negli anni successivi dal Ferro e dai suoi fratelli. La caratteristica iconografica del velo ondeggiante troverà fortuna lungo il Seicento, come ci dimostrano il busto della Madonna nell’oratorio della Gibellina a Grignasco e un altro entro una nicchia di un’antica casa varallese.
Ai lati della Vergine sul dossale dell’altare varallese della chiesa di S. Giacomo, le due statue che raffigurano S. Benedetto e S. Francesco sono presenti, non tanto per esaltare due tra i più grandi fondatori di ordini religiosi, quanto per raffigurare i due santi di cui portavano il nome Benedetto Rachetti e suo padre Francesco. Anch’esse rivelano la mano d’un maestro d’intensa potenza espressiva, d’innata forza plastica, e costituiscono molto probabilmente l’estrema testimonianza scultorea del grande d’Enrico.

Auguri vivissimi dunque per un ottimo restauro!

Di Casimiro Debiaggi

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