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Massimo Gabbio, ex amministratore valsesiano, ha avuto il Covid

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Verso metà della settimana scorsa, girovagando su Facebook avevo letto un post pubblicato da Massimo Gabbio, che è stato sindaco di Riva Valdobbia nonché assessore (alla Sanità tra l’altro, e poi lui è farmacista) in Comunità Montana e che quindi mi era capitato di intervistare, su argomenti legati al suo impegno di amministratore. Insomma, Massimo comunicava di essere guarito dal Covid, dimesso dal Santi Pietro e Paolo di Borgosesia e pronto a rientrare a casa.
«E se gli chiedessi di raccontare la sua esperienza ai lettori del Valsesiano?» ho pensato. Alla mia proposta, fatta rigorosamente via messaggio (in ripresa ok, ma sicuramente ancora convalescente), ha subito risposto che gli avrebbe fatto molto piacere.
Tu sei uscito dall’ospedale giovedì 2 aprile, ma quando hai cominciato a non star bene? «Intorno al 10/11 di marzo mi ero accorto che, nelle ore serali, avevo la febbre, sui 38 gradi e mezzo/39. Ma in realtà allora io non mi sentivo male: ero del tutto asintomatico, appunto solo un rialzo della temperatura, nient’altro. Mia mamma, intanto, tossiva un po’, niente però che potesse impensierirci. In ogni modo, mi sono fermato e sono rimasto a casa: ho assunto l’antipiretico che mi era stato prescritto dal medico, e in effetti la febbre scendeva. Trascorso ancora qualche giorno, mi è piombata addosso una grande stanchezza, davvero pesante, tanto che in effetti l’avevo imputata a qualcosa di patologico: ma, continuando a non avvertire altri sintomi, avevo concluso che l’astenia potesse anche essere ricondotta a una grossa influenza, non necessariamente al virus. Quindi occorre davvero guardarsi da questo covid: la temperatura cala e ti fa credere che la malattia sia in remissione, ma in realtà non è così».
Infatti nel giro di poco la situazione è cambiata: «Eh sì» ricorda Gabbio, «il martedì 17 erano subentrate difficoltà respiratorie. A quel punto, tutti e due, mia mamma e io, siamo andati diretti al Pronto Soccorso di Borgosesia: prima il passaggio al pre triage, nella tenda allestita all’esterno, dove c’era davvero moltissima affluenza, per circa sette ore. Infine, verso le 3 del mattino, il ricovero per entrambi. Tutti e due al secondo piano; lei con una forma virale riconosciuta subito dai medici come più lieve, la mia invece certamente più importante».
«E’ stato il momento peggiore» prosegue il racconto. «A causa delle difficoltà respiratorie ho dovuto in quella fase indossare il casco. Impossibile alimentarsi se non con le flebo. Una condizione di isolamento, ovviamente necessaria ma che a livello psicologico incide in maniera notevole. Oltre alla sofferenza fisica, anche quella emotiva. C’erano pazienti che si mettevano a piangere, reazione comprensibilissima, appunto a confermare come si tratti di un momento veramente difficile: ogni volta che passavano in camera per la visita, i dottori e tutto il personale sembravano una squadra dei RIS, con le tute monouso, visiere, mascherine, stivali… una condizione che ti tempra e ti scuote, una condizione d’abbandono, sì, perché pesa il non poter ricevere visite. Beninteso, deve essere così, è la malattia che lo richiede, ma i ricoverati ne risentono psicologicamente».
«Quando ho iniziato a stare meglio, mi hanno trasferito al quarto piano, sempre reparto Covid ma che accoglie malati con sintomi meno seri. Anche mia mamma era salita al quarto, ma prima di me, proprio perché il virus l’aveva colpita in modo meno aggressivo. In tutto, ho trascorso 16 giorni con l’ossigeno. Poi mi hanno levato anche quello e ho iniziato la rieducazione polmonare. Fino alle dimissioni, nel tardo pomeriggio appunto di giovedì 2 aprile: ho raggiunto mia mamma a casa, lei era rientrata con un paio di giorni d’anticipo, guidando la mia macchina. Arrivato a destinazione ero sfinito, mi pareva d’essere stato alla Margherita andata e ritorno in giornata, però anche una gioia, dopo tre settimane tanto impegnative».
«Quando guarisci e riguardi ciò che è stato ti rendi conto delle condizioni in cui medici, infermieri, personale sanitario e non si trovino a lavorare a causa di questa terribile emergenza. Turni massacranti, ore e ore di servizio ininterrotto. Io, anche per il lavoro che faccio, passata la fase critica mi sono confrontato volentieri con i medici, che non possono seguire protocollo alcuno, nella gestione di quanto sta accadendo, perché non esistono protocolli, è tutto in divenire, qualcosa di non conosciuto che evolve di ora in ora. Tengo a dire» conclude Massimo Gabbio, «che ho incontrato sempre grande disponibilità, nonostante appunto il superlavoro che li vede coinvolti sul campo giorno dopo giorno, da parte di medici e personale, spiccate professionalità e competenza. Risorse umane importanti e preparate. E un’altra cosa ho constatato, il costo economico di questa emergenza: accoglienza dei malati, ricoveri, cure e terapie richiedono sanificazioni e igienizzazioni costanti e puntuali, gli stessi operatori sanitari a ogni turno devono indossare presidi nuovi per poter lavorare in sicurezza. Un percorso molto molto impegnativo. Per tutti».
Ora Massimo Gabbio è a casa, si riposa, mi ha detto che fa dal salotto alla camera e viceversa; ma il tempo per riprendersi e recuperare va assolutamente osservato e rispettato. Così come vanno assolutamente osservate e rispettate le regole da seguire: stare in casa, uscire solo quando è necessario e, in questo caso, adottare tutte le misure di prevenzione del contagio. A Massimo tanti auguri di pronta guarigione, e grazie per averci concesso di raccontare il «suo» Covid.

E tu cosa ne pensi?

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