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Osvaldo Genova: quasi un secolo di borgosesianità

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Ricordati di vivere, non vivere di ricordi”: questo aforisma, spesso citato da Osvaldo, adesso che lui non c’è più, è molto difficile da mettere in pratica, perché i ricordi che affiorano sono davvero moltissimi, ma sono certa mi aiuteranno ad essere migliore. Osvaldo Genova era nato a Borgosesia il 28 marzo 1923, quindi avrebbe compiuto novantasei anni, ma il suo spirito era molto, molto più giovane. Nella sua vita aveva amato la moglie Marina Ferraris: “Tei rubatami dinta a l’impruvis, cume ‘n colp ad losna na sei d’està”, i suoi figli: Gianna, Alberto ed Adriano, e la nipote Clarice: “Bella e brava” come la definiva orgoglioso, ma l’aveva sempre accompagnato anche l’amore per la Valsesianità e per la sua Borgosesia.

Osvaldo è sempre stato curioso: fin da ragazzino sbirciava nelle officine e nei laboratori artigianali: “Per rubare il mestiere. Ho imparato tanti lavori vedendoli fare”, si ricordava del fabbro Carlo Gattoni, colui che D’Annunzio soprannominò: “Il battitore di spade lunghe”: “Sbirciavo il Gattoni che forgiava il ferro incandescente e con quattro colpi di martello gli cambiava forma, andavo dall’Aldo Garbaccio e mi diceva: mettiti lì, fermo, non toccare niente, e io lo osservavo riparare le radio. Sono cresciuto insieme con la Dea Garbaccio alla quale l’Amministrazione Comunale ha dedicato una via. La sera del Mercu Scurot del ’39 suo papà e suo fratello misero in giro per Borgosesia degli altoparlanti per far ascoltare la Dea che cantava alla radio”.

All’oscurità degli occhi, purtroppo subentrata da qualche anno, Osvaldo aveva sostituito una grande capacità di comunicare, mantenendo l’interesse di scoprire cose nuove. Il suo mondo interiore si era arricchito: i versi di Dante che recitava a memoria gli facevano compagnia e prendevano sempre più colore, così come i poeti borgosesiani raccolti da Enzo Barbano nelle “Cronache poetiche della vecchia Borgosesia”, una pubblicazione del 1974, ormai introvabile, arricchita dalle incisioni della compianta Valeria Guglielmina.

Borgosesia per Osvaldo aveva dei simboli che si erano impressi nel suo cuore: ‘l caminun della Manifattura, le ciminiere delle fabbriche, ‘l cornu che chiamava al lavoro, la chiesa di Sassola “demolita per costruirne un’altra tutta diversa”: “Chi si ricorda più dei portici Frascotti, di Via dei Lilli, di un centro storico molto diverso da quello attuale: Piazza Mazzini era un salotto, una delle piazze più belle del Piemonte. Mi ricordo bene il teatro Sociale di Borgosesia, quello precedente all’ultimo recentemente demolito per far spazio ad un parcheggio, e mi ricordo il teatro di Casa Tosca, in Via Gaudenzio Ferrari, dove cantò il tenore Castellan e anche la Cappellaro, la zia del Dottor Cappellaro” e commentava amaramente: “Adesso che il Sociale non c’è più, tutti lo vogliono ricordare, troppo tardi parlarne, invece di salvarlo”. Osvaldo del Sociale conservava una foto storica, datata 28 agosto 1912, che ritraeva il rifacimento del tetto del teatro, che era stato costruito nel 1874: il boccascena era stato realizzato dallo scultore Carlo Conti, i gessi raffiguravano le muse delle arti, la splendida balconata in ferro battuto, con le maschere della commedia, purtroppo era migrata a far da balcone a una casa privata, ma Osvaldo l’aveva ritrovata e fotografata: “Come per un vecchio amico il tempo è passato, ma è ancora perfettamente riconoscibile”.

E ‘l pittu?”: in fasce Osvaldo il giorno di San Pietro, festa patronale a Borgosesia, fu “dimenticato” dai fratelli più grandicelli, ai quali era stato affidato dalla mamma, accanto al banco di beneficenza, che veniva collocato vicino alla fontana Frascotti: forse fu da quell’episodio che nacque il suo amore per la fontana della quale è stato l’appassionato custode e il “tutore”.

Osvaldo fece il bersagliere a Bologna: “Bersagliere a vent’anni, bersagliere per tutta la vita”, era addetto all’OARE, Officina Automobilistica Regio Esercito. La sera frequentava una scuola serale, che purtroppo dovette interrompere perché fu trasferito in Sardegna, poi a Bari. Dopo la Liberazione tornò a casa in camion, portò a casa in un paese sul lago il suo tenente, ma non accettò l’ospitalità per la notte: “Vede signor tenente dietro quelle montagne c’è la mia casa, sono due anni che manco”.

Da giovane Osvaldo, in società con i fratelli, aveva continuato l’attività del padre: “Ditta Giovanni Genova”, poi era passato alla Valvolmetal di Germano Bocciolone, lavorando fino alla pensione come responsabile della manutenzione di tre stabilimenti: Valvometal, Sitai di Prato Sesia e Max Nova di Novara.

Nel 1952 Osvaldo si era sposato con Marina, condividendo con lei la passione per le corse in montagna: “Ho una coppa piena di medaglie: sempre in coppia noi due: Roccapietra-Cervatto, Varallo-Alagna e tante altre”. Da giovane gli piacevano le moto, possedeva una rombante moto Guzzi: “Quando mi sono sposato ho lasciato moto e amici: si chiudeva il libro e se ne apriva un altro, ero diventato adulto e dovevo prendermi le mie responsabilità”.

Se sento un’aria d’opera, dalla Traviata o dalla Tosca, mi commuovo sempre”: chissà come sarai rimasto estasiato dalle melodie celesti, ma ora Ti saluto Osvaldo e, a malincuore, riappendo la cornetta (Tu e io eravamo rimasti tra i pochi con il “fisso”) con ancora nel cuore l’eco della Tua voce inconfondibile, affettuosa, per gli auguri di Natale e per quell’ultimo quesito sulla “grivla”, la cesena, e proprio come quell’uccello di passo invernale te ne sei andato, da signore, senza disturbare nessuno, semplicemente chiudendo gli occhi al mondo, ma lasciando una grande eredità d’affetti.

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