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Cima Mutta, emozioni a 2.135 metri

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Riceviamo e pubblichiamo

ALAGNA – La sera di domenica 24 ottobre ero particolarmente euforica perché nel corso del pomeriggio avevo ricevuto l’invito di Barbara a fare un’escursione in montagna e io, quando si tratta di andare in alto, sono sempre in prima linea. Nonostante i ventisette anni di differenza, per me Barbara è una confidente e un’amica perciò mi piace trascorrere del tempo in sua compagnia.

La proposta di Barbara è molto allettante: l’intenzione è quella di andare a Cima Mutta (2.135 metri), punto panoramico situato tra la Valle Vogna e la Valle d’Otro. Nel maggio 2011 assieme a mio padre Bruno raggiunsi per la prima volta questo luogo magico. Lunedì 25 ottobre è un grande giorno. Dopo aver fatto colazione, preparo lo zaino con cura. Decido di prendere anche una giacca a vento poiché a 2.000 metri l’aria potrebbe essere pungente. Metto lo zaino in spalla, esco da casa e guardo con occhi sognanti la meta da raggiungere. Partiamo da Alagna alla volta di Ca’ di Janzo (1.354 metri) da cui avrà inizio la nostra gita e da dove, indirizzando lo sguardo verso il cielo terso, riusciamo a scorgere il ripetitore di Cima Mutta, quasi ottocento metri più in su. Alle 9 ci incamminiamo verso Selveglio (1.550 metri), frazione alta della Valle Vogna devastata da un terribile incendio nel 1930, costeggiando prima un torrente e poi superando una serie di tornanti. Lasciato alle spalle l’abitato di Selveglio, svoltiamo a destra seguendo il segnavia numero 210 e proseguiamo in mezzo al bosco del quale cogliamo il panteistico incanto, per poi arrivare ai 1.715 metri dell’alpe Poesi. La nostra ascesa continua verso l’alpe Piane; nei prati circostanti tre cavalli e una decina di mucche stanno assaporando l’erba presente a 1.832 metri.

Salendo, la traccia si fa più incerta ma grazie ai segnavia riusciamo a trovare il sentiero. Purtroppo non vediamo animali selvatici mentre dieci anni fa ebbi almeno la fortuna di udire il canto del cuculo. Passiamo tra sporadici larici e abeti, poi ci dirigiamo verso destra e attraversiamo alcune pietraie in mezzo alle quali intravedo delle piantine di brugo ormai rinsecchite e siun, termine dialettale utilizzato per indicare la scivolosa erba olina della quale gli stambecchi sono ghiotti. Giunge l’ora dello strappo finale. L’imponente ripetitore, lo stendardo rosso e le svolazzanti bandierine di preghiera tibetane sono poco distanti da noi, ancora qualche passo e, dopo un’ora e quaranta di cammino, eccoci a 2.135 metri! La vista è mozzafiato per cui la fatica dell’ascesa viene pienamente ripagata, l’aria è abbastanza fresca e il venticello ci scompiglia i capelli. Mentre sorseggio il tè fumante, ammiro le bellezze del Creato e sono veramente felice.

La magia dei variopinti colori autunnali mi dona una piacevole sensazione di pace nello stesso modo in cui il silenzio, che regna sovrano, rinfranca l’anima e il corpo. Scorgo il Bivacco Ravelli, punto d’appoggio per gli alpinisti che desiderano raggiungere la vetta del Corno Bianco. A Pianmisura Grossa l’oratorio di San Giacomo Maggiore, posto all’estrema destra dell’alpeggio, spicca tra le grigie casere. La piccola e isolata baita di Zube si trova al centro di un immenso prato in cui, nella stagione estiva, pascola un gregge simile alle nuvole che si rincorrono nel cielo sovrastante Alagna. Osservando il Rifugio Città di Vigevano, il mio pensiero va alle tenaci portatrici le quali, dopo aver infilato le braccia nelle robuste cinghie delle gerle colme di viveri e di bagagli, coprirono un’infinità di volte la lunga distanza da Alagna al Col d’Olen. Le pittoresche frazioni di Otro, situate all’ombra del Monte Torru, sono sotto di noi. Con la mente torno indietro nel tempo. Penso ai miei antenati che da Felleretsch si recarono al mulino di in d’Putteru per macinare la segale, ai miei bisnonni Giovanni e Maria Amalia che intrattennero gli innumerevoli clienti dell’Osteria Alpina, a mia nonna Elvira che falciò il fieno a fum Bialj e a mio padre Bruno colui che da bambino all’imbrunire percorse a passo spedito la salita di Otro dopo aver trascorso la giornata sui banchi della scuola elementare. Focalizzo lo sguardo alla destra di Felleretsch e tra gli alberi intravedo gli edifici del Belvedere, che durante il secolo scorso furono sede dell’albergo e della stazione dell’ovovia. Questo luogo del Vallone d’Otro, da cui si gode una vista meravigliosa su Alagna e sul Monte Rosa, versa in uno stato di abbandono a causa delle fatiscenti strutture architettoniche presenti e dal mio punto di vista meriterebbe di essere valorizzato. Sfortunatamente il Rosa sta giocando a nascondino con le nubi, ma dopo alcune ore il secondo massiccio più alto delle Alpi ci riserverà una gradita sorpresa e avremo modo di contemplare la meravigliosa parete sud nella sua interezza.

La maggior parte dei fiabeschi alpeggi di Alagna è visibile come il centro del paese, dove svetta il campanile della chiesa parrocchiale, e le caratteristiche frazioni circondate da ameni prati e da boschi di conifere. Prendo il binocolo e al di sopra dell’alpe Faller individuo la mulattiera, realizzata dagli Alpini quasi cent’anni fa, che conduce ai 2.738 metri del Passo del Turlo. Attraverso questa via di comunicazione che collega la Valsesia con la Valle Anzasca, in epoca medievale, transitarono i coloni walser che fondarono Pedemonte. Il Tagliaferro e la Carnera, due cime circostanti, appaiono tanto vicine quanto lontane. Di fronte a noi si trova l’alpe Sattal, eremo di Giuseppe. Nel territorio rivese, vedo non solo l’alpe Stella da cui si transita per raggiungere il pianoro di Otgnoso ma anche le due baite di Motteso adagiate su un ripido pendio. Da quassù il fiume Sesia sembra un immoto e argenteo filo di seta. Seguendo il corso d’acqua, che nell’età napoleonica rappresentò la linea di confine tra il Regno d’Italia e l’Impero Francese, riusciamo a individuare anche Otra Sesia, frazione di Mollia. Appena dopo di noi arriva un ragazzo che si guarda intorno estasiato, poi una coppia di escursionisti e più tardi un quartetto formato da soli uomini già anziani ma che hanno avuto le gambe, il fiato e la tenacia, fattori indispensabili per arrivare in questo luogo suggestivo.

Un uomo del gruppo ci domanda se siamo del posto, io rispondo che sono di Alagna e con molto piacere mi improvviso guida escursionistica. Al di sotto di un tavolino metallico sul quale sono presenti i nomi delle punte del Monte Rosa e di altre cime minori, all’interno di una scatola è conservato il libro di vetta: allora lo prendo, con l’intenzione di scrivere alcune righe ma sono rapita dalla bellezza del luogo e le frasi stentano a prendere forma. In seguito, facciamo un frugale spuntino e poco dopo le 13 ci apprestiamo a percorrere il sentiero a ritroso. Scendendo di quota, scavalchiamo rami e tronchi caduti a terra a causa delle intemperie e allo stesso tempo percepiamo l’inebriante profumo della resina.

Alle 14,25 giungiamo a Ca’ di Janzo, località in cui, presso l’Albergo Pensione Alpina, nel settembre 1898 soggiornò la regina Margherita di Savoia, e non ci resta che rientrare ad Alagna. Un ringraziamento speciale a Barbara con la quale ho condiviso non solo il piacere di ascendere verso il cielo ma anche il rammarico di tornare a valle dopo aver vissuto un’esperienza catartica. Oggi vorrei essere ancora lassù per poter ascoltare la voce del vento, rimirare il panorama, rivivere quel tripudio di emozioni ma soprattutto trascorrere una fantastica giornata tra le mie amate montagne, respirando l’aria di libertà mentre sono sospesa tra il cielo e la terra come un’aquila reale.

Chiara Fanetti

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